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Vanessa Litardi

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La poesia del mito fra gli scatti di Vanessa Litardi

di Gian Mauro Sales Pandolfini

La poesia del mito fra gli scatti di Vanessa Litardi

di Gian Mauro Sales Pandolfini

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Si parte così per l’infinito. Vanessa Litardi sa benissimo cosa significhi essere un ponte, un medium d’eccezione in grado di condurci verso una dimensione nuova, straordinaria, laddove la realtà scivola fra le lenzuola del sogno.
L’opera dell’artista romana non si pone come mera narrazione. Di norma la fotografia fonda la sua ragion d’essere su due elementi, ovvero l’esigenza legata al ricordo, che non di rado si affida alle logiche della documentazione, e la più libera scelta autoriale, che eleva l’obiettivo della camera al modus agendi dell’occhio che vede e riconosce. È chiaro che nel momento in cui la realtà si fa visione, la fotografia diviene arte. Grandi maestri del calibro di Salgado, McCurry, Ray o Erwitt, non si sono limitati a mostrare il mondo, lo hanno trasfigurato. E il senso della bellezza sta proprio in questo, nella capacità di rileggere la nostra esistenza in un modo diverso, alternativo, assolutamente personale. Litardi persegue un suo preciso progetto estetico. Le sue immagini confondono lo spettatore, lo catturano e lo inebriano, traghettandolo, scatto dopo scatto, sulle rive di un’isola sospesa, ambigua, spesso destabilizzante. L’artista desidera che siano gli occhi della mente a schiudersi dinanzi alle sue fotografie. Sono ritratti apparentemente statuari, cristallizzati, che emergono fra decisi contrappunti di luci e ombre, sono primi piani, in cui l’intensità dello sguardo penetrante o la danza inscenata dalle mani creano un dramma visivo ed esistenziale. Una sapiente orchestrazione compositiva lascia emergere, con grazia e allusione, quel dettaglio simbolicamente efficace per il riconoscimento del soggetto. Non si tratta di scatti da guardare distrattamente, ma di quadri lirici da sviscerare e comprendere. Sono le leggi della poesia a dettare le regole, specialmente se teniamo bene a mente l’origine del termine: la parola “poesia” viene dal verbo greco ‘poiéo’ che significa sia ‘compongo in versi, versifico’, sia ‘com-prendo, abbraccio le cose nella loro totalità’. Un aspetto, l’ultimo, che rimanda subito all’idea dell’arte che sa porsi come soluzione e lettura del mondo. Gli scatti di Litardi agiscono alla stessa maniera. Anzitutto il buio della scena finisce per rivelare allo spettatore ciò che la luce si limita a mostrare. L’artista non ferma più il tempo, lo sovverte, lo cattura per trasfigurarlo in una linea infinita e trasognata. L’aspetto quotidiano, ordinario, del ritratto si fa allora mito. Ciascuno dei soggetti veleggia sulle rive di quell’isola sovrannaturale, in cui l’antica mitologia classica, ricca di suggestioni e riferimenti, si fa ancora metafora di vita. Appare allora un uomo dalla folta barba e dallo sguardo ineluttabile, fra le cui dita è custodito l’anello con le ceneri della madre defunta. Costui è ora Ade, il dio degli Inferi, il custode della morte. I piercing di una donna dai lineamenti decisi sono ora gli ornamenti tribali di Demetra, dea della terra e della fecondità, o ancora la mano che copre metà volto di una ragazza evoca l’immagine della Luna, che ci rimanda alla Grande Madre, alla Musa ispiratrice o al lato oscuro dell’essere che esiste in ciascuno di noi. Litardi, in guisa di regista e scenografa, dà origine a un pantheon moderno, in cui gli attori che recitano sul palcoscenico vengono stravolti e reinterpretati dal suo sguardo poetico e sorprendente, laddove l’impressione cede il passo all’intuizione. È l’adagio di Salustio: “queste cose non avvennero mai ma sono sempre”.

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Si parte così per l’infinito. Vanessa Litardi sa benissimo cosa significhi essere un ponte, un medium d’eccezione in grado di condurci verso una dimensione nuova, straordinaria, laddove la realtà scivola fra le lenzuola del sogno. L’opera dell’artista romana non si pone come mera narrazione. Di norma la fotografia fonda la sua ragion d’essere su due elementi, ovvero l’esigenza legata al ricordo, che non di rado si affida alle logiche della documentazione, e la più libera scelta autoriale, che eleva l’obiettivo della camera al modus agendi dell’occhio che vede e riconosce. È chiaro che nel momento in cui la realtà si fa visione, la fotografia diviene arte. Grandi maestri del calibro di Salgado, McCurry, Ray o Erwitt, non si sono limitati a mostrare il mondo, lo hanno trasfigurato. E il senso della bellezza sta proprio in questo, nella capacità di rileggere la nostra esistenza in un modo diverso, alternativo, assolutamente personale. Litardi persegue un suo preciso progetto estetico. Le sue immagini confondono lo spettatore, lo catturano e lo

inebriano, traghettandolo, scatto dopo scatto, sulle rive di un’isola sospesa, ambigua, spesso destabilizzante. L’artista desidera che siano gli occhi della mente a schiudersi dinanzi alle sue fotografie. Sono ritratti apparentemente statuari, cristallizzati, che emergono fra decisi contrappunti di luci e ombre, sono primi piani, in cui l’intensità dello sguardo penetrante o la danza inscenata dalle mani creano un dramma visivo ed esistenziale. Una sapiente orchestrazione compositiva lascia emergere, con grazia e allusione, quel dettaglio simbolicamente efficace per il riconoscimento del soggetto. Non si tratta di scatti da guardare distrattamente, ma di quadri lirici da sviscerare e comprendere. Sono le leggi della poesia a dettare le regole, specialmente se teniamo bene a mente l’origine del termine: la parola “poesia” viene dal verbo greco ‘poiéo’ che significa sia ‘compongo in versi, versifico’, sia ‘com-prendo, abbraccio le cose nella loro totalità’. Un aspetto, l’ultimo, che rimanda subito all’idea dell’arte che sa porsi come soluzione e lettura del mondo.

Gli scatti di Litardi agiscono alla stessa maniera. Anzitutto il buio della scena finisce per rivelare allo spettatore ciò che la luce si limita a mostrare. L’artista non ferma più il tempo, lo sovverte, lo cattura per trasfigurarlo in una linea infinita e trasognata. L’aspetto quotidiano, ordinario, del ritratto si fa allora mito.

Ciascuno dei soggetti veleggia sulle rive di quell’isola sovrannaturale, in cui l’antica mitologia classica, ricca di suggestioni e riferimenti, si fa ancora metafora di vita. Appare allora un uomo dalla folta barba e dallo sguardo ineluttabile, fra le cui dita è custodito l’anello con le ceneri della madre defunta. Costui è ora Ade, il dio degli Inferi, il custode della morte. I piercing di una donna dai lineamenti decisi sono ora gli ornamenti tribali di Demetra, dea della terra e della fecondità, o ancora la mano che copre metà volto di una ragazza evoca l’immagine della Luna, che ci rimanda alla Grande Madre, alla Musa ispiratrice o al lato oscuro dell’essere che esiste in ciascuno di noi. Litardi, in guisa di regista e scenografa, dà origine a un pantheon moderno, in cui gli attori che recitano sul palcoscenico vengono stravolti e reinterpretati dal suo sguardo poetico e sorprendente, laddove l’impressione cede il passo all’intuizione. È l’adagio di Salustio: “queste cose non avvennero mai ma sono sempre”.

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